venerdì 2 gennaio 2015

"E' l'idea di possedere un animale, di poterlo usare come ti pare che rende la cosa particolarmente eccitante"


Prostituzione migrante e sopravvivenza dell'immaginario razzista e coloniale
 

La rappresentazione nell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento  delle donne africane nelle fonti iconografiche e letterarie concorre in modo determinante a plasmare l'immaginario collettivo italiano e a costruire un apparato culturale funzionale alla legittimazione della conquista dei Paesi del Corno d'Africa e al consolidamento del consenso popolare all'impresa coloniale.
Nella prima fase dell'occupazione proliferano le immagini, spesso realizzate nei postriboli specificamente destinati ai clienti italiani, di donne nude raffigurate in pose sensuali ed invitanti, ad incarnare il mito della Venere nera. Spogliate e private di ogni individualità, del nome come di qualsiasi altro carattere distintivo, esse vengono rappresentate come corpi sessualmente disponibili alla conquista, in grado di riattivare negli uomini italiani una primordiale ed esuberante virilità fecondatrice.
 
 

Queste donne vengono metaforicamente accostate alle nuove terre vergini e fertili da penetrare ed assoggettare: un abbinamento volto a legittimare e a naturalizzare, attraverso il simbolismo dei rapporti di genere, sia il dominio maschile razziale sulle  donne africane, che il potere coloniale esercitato su spazi femminilizzati ed erotizzati.
 
 

Tali rappresentazioni culturali alimentano modelli di potere maschile fondati sulla forza e sulla prevaricazione. E' opportuno ricordare, infatti, che il mito  dell'illimitata disponibilità sessuale delle donne africane non si configura soltanto come uno strumento finalizzato alla costruzione del consenso popolare all'impresa coloniale italiana, ma anche come un mezzo mirante all'imposizione di rigide gerarchie di genere e di razza e volto, soprattutto,  alla giustificazione dell'aggressività e delle violenze commesse dalle truppe italiane. In nome della supposta maggiore licenziosità delle donne africane verranno infatti legittimati numerosi stupri e soprusi.
Agli albori dell'impresa coloniale fascista in Etiopia, il mito della Venere nera influenzerà profondamente le aspettative dei soldati italiani, attratti dall'idea di poter rivendicare l'appropriazione del corpo delle donne africane come bottino di guerra.
Dopo la fondazione dell'Impero nel 1936, la prospettiva muta. Nell'intento di riaffermare la  spiccata superiorità degli italiani, il regime fascista implementa una serie di dispositivi giuridici preordinati all'instaurazione di un rigido sistema di segregazione razziale. Vengono vietati i rapporti coniugali ed extraconiugali tra “razze” diverse, proibita la legittimazione e l’adozione di figli nati dall’unione di “cittadini” con “sudditi”, incentivato il trasferimento di donne italiane nelle colonie.
A questo mutato orientamento corrisponde l'ideazione di un nuovo repertorio iconico e testuale. Le immagini della Venere nera vengono soppiantate da rappresentazioni di tipo etnografico che evidenziano caratteri fisici interpretati come segni di inferiorità. Le donne africane vengono descritte come esseri deformi, incivili e subiscono un processo di disumanizzazione attraverso l'attribuzione dei tratti selvaggi del primitivismo e dell'animalità.
 
Nelle razze negre - scrive un anno prima della fondazione dell'Impero l'antropologo Lidio Cipriani - l'inferiorità mentale della donna confina con una vera e propria deficienza; anzi, almeno in Africa, certi contegni femminili vengono a perdere molto dell'umano, per portarsi assai prossimi a quelli degli animali". [Lidio Cipriani, Un assurdo etnico: l'Impero etiopico, 1935, p.181]
 
Questi retaggi culturali razzisti e coloniali sopravvivono nella mentalità di clienti delle prostitute nigeriane, come attestano le seguenti testimonianze riportate dal sociologo marxista Emilio Quadrelli nel saggio Corpi a perdere, incluso nel libro La città e le ombre, a cura dello stesso  Quadrelli e di Alessandro Dal Lago:
 
Ogni tanto, diciamo una volta alla settimana, vado con le negre. Sono stato anche con altre prostitute, ma con le negre mi diverto di più, è come fare un safari. Mi sembra di andare a caccia. Mi sembra di cacciare degli animali grandi e grossi. Poi sono tutte uguali, vai nel mucchio, non hai il problema della scelta. Poi loro per i soldi fanno tutto, con loro ti senti una potenza. Non mi interessa tanto la cosa di per sé, è l'idea di possedere un animale, di poterlo usare come ti pare che rende la cosa particolarmente eccitante. (Cliente di 23 anni).
 
Ogni tanto vado con delle prostitute straniere. Sono stato sia con le slave che con le nere. Preferisco le nere. Sono una novità e poi mi sembra che si possa fare con loro quello che si vuole, sono un po' come delle bestie, sempre in calore, che non patiscono niente. Poi ne hanno sempre voglia.  [..] Te l'ho detto, è un po' come avere a che fare con degli animali. Vado con loro proprio per questo. [..] La scelta è abbastanza casuale, le negre hanno tutte la stessa faccia e poi a me interessa il resto. Mi piacciono quelle un po' più abbondanti. [..] Così le posso strizzare ben bene. Mi diverto a farle bruciare la pelle. [..] (Cliente di 21 anni).
 
Sono stato con delle prostitute straniere qualche volta. Ci vado perché loro sono così naturalmente, si vede che gli piace, sì lo fanno anche per guadagnare, però sono più portate specialmente le slave, sembra che non aspettino altro. Mi sembra che per le straniere sia il lavoro preferito. Poi con le negre sei anche curioso, sembrano un po' degli animali feroci, ci vai e ti sembra di rischiare, l'idea del rischio fa aumentare il desiderio. A volte lo dico per scherzo, a volte però lo credo sul serio, e magari le dico: "Ehi non mi mangiare". [..] Quando vai con una nera che magari è settanta chili la paura ti viene, allora subentra il gioco di chi è più forte, di chi comanda. (Cliente, 19 anni).
 
In questi enunciati è condensato l'intero repertorio dei topoi razzisti di entrambe le fasi della colonizzazione: il mito dell'incondizionata e "naturale" disponibilità sessuale delle donne africane (loro sono così naturalmente, sono più portate, ne hanno sempre voglia), la loro percezione come animali selvaggi temporaneamente addomesticati, che legittima qualsiasi atto di appropriazione, di dominio, di prevaricazione e di sadismo (sono un po' come delle bestie sempre in calore che non patiscono niente, con loro si può fare quello che si vuole, le posso strizzare ben bene, mi diverto a farle bruciare la pelle, è l'idea di possedere un animale, di poterlo usare come ti pare che rende la cosa particolarmente eccitante), la loro rappresentazione come carne indifferente, priva di individualità (poi sono tutte uguali, vai nel mucchio, non hai il problema della scelta), l'attribuzione  ad esse di caratteri primitivi e selvaggi (E' incredibile come pensiate a noi come a degli esseri appena usciti dalla foresta, osserva la prostituta nigeriana Jenny).
La terza testimonianza che ho riportato introduce un altro stereotipo razzista: il cannibalismo delle donne africane, che non è affatto estraneo all'immaginario coloniale, come dimostra questa figura.
 
 

 


Si tratta di un'incisione di Theodor Galle del 1589 che rappresenta Amerigo Vespucci sulle spiagge del nuovo continente, dove si imbatte in una donna seminuda distesa su un'amaca che lo invita ad accostarsi. La scena appare dunque conforme al modello figurativo che ho precedentemente illustrato.  Tuttavia, sullo sfondo si intravedono donne che praticano il cannibalismo. L'incisione  è, dunque, espressione di un atteggiamento ambivalente, sospeso fra il desiderio erotico di conquista, l'attrazione sessuale esercitata dalle donne indigene e il timore di essere divorati, assimilati, privati della propria identità da questi esseri "selvaggi". Il tema verrà ripreso dal colonialismo italiano, soprattutto nel periodo dell'impero fascista, quando verranno vietate le relazioni sessuali con le donne africane e verrà imposta la segregazione razziale, per preservare la "purezza" del sangue dei coloni.

Mistificazioni


In un recente articolo sul retaggio dell'immaginario coloniale nella prostituzione, la figura del cliente viene disinvoltamente rimossa dall'orizzonte discorsivo e  la sua mentalità razzista viene grottescamente proiettata sulle femministe abolizioniste, operando un vero e proprio ribaltamento della realtà, come se fossero queste ultime a perpetuare frame razzisti e a praticare violenze sulle donne prostituite.


Questa mistificazione della realtà produce un duplice effetto. In primo luogo,  distoglie lo sguardo di lettori e lettrici dai veri eredi della mentalità coloniale e razzista: i clienti di cui ho riprodotto le testimonianze, ne salvaguarda l'immagine, li protegge dalle critiche, li esenta da ogni responsabilità. In secondo luogo, costruisce un nemico, un capro espiatorio contro cui convogliare l'odio di lettori e lettrici: le femministe abolizioniste, oggetto in Italia, da parte di alcune persone, di  una spietata demonizzazione che fa ricorso anche alla mistificazione.

Un'altra forma di alterazione della verità è ravvisabile nell'accusa completamente infondata rivolta alle abolizioniste di confondere prostituzione e tratta e di ridurre quest'ultima a quella delle donne nigeriane. L'insinuazione è funzionale all'inserimento artificioso delle abolizioniste nella categoria dei sostenitori e divulgatori dei miti coloniali e razzisti.
A destare stupore e perplessità è il fatto che questa accusa venga ossessivamente reiterata di anno in anno, malgrado le smentite e le confutazioni, configurandosi come una vera e propria leggenda metropolitana.
Ho già chiarito altrove, più di un anno fa, come  la tratta non comporti necessariamente né il trasferimento al di fuori dei confini nazionali, né lo spostamento da e verso Paesi che non aderiscono agli accordi di Schengen e come la maggioranza delle vittime  e, in genere, delle prostitute straniere nell’Europa occidentale sia costituita da donne provenienti dall'Europa centrale ed orientale e, dunque, da bianche. Questa osservazione mi consente di confutare l'insinuazione calunniosa che il  colore nero della pelle rappresenti per le femministe abolizioniste il dato centrale attorno al quale costruire il mito razzista della vittima di tratta. E' questa un'affermazione falsa e diffamatoria, come lo è l' asserzione che alle abolizioniste non importerebbe nulla del traffico di esseri umani non finalizzato allo sfruttamento sessuale. E' ovvio che a noi, come  a qualsiasi altra persona , stia molto a cuore la lotta contro ogni forma di tratta e  contro il caporalato! Peraltro, queste accuse oltraggiose sono state mosse da chi ha tradotto testi di una studiosa che vorrebbe abolire il termine tratta (Laura Agustin)!
Mi pare, poi, francamente assurdo attribuire alle abolizioniste l'idea che la prostituzione rappresenti una forma di devianza individuale (sic!!!!). Ma  quando mai? In quale articolo o libro sarebbero riportate queste asserzioni? Esiste, al contrario, una nutrita letteratura di ispirazione abolizionista che evidenzia le strette connessioni esistenti tra capitalismo, razzismo, disuguaglianze economiche, sociali e di genere e  diffusione della prostituzione!  Penso, per citare  soltanto qualche nome, alle analisi del sociologo marxista Richard Poulin, delle femministe   Jacqueline Pénit-Soria e Claudine Blasco della commissione Genere di Attac France, ai testi di una femminista materialista come Jules Falquet. Quest'ultima critica aspramente la nuova divisione internazionale del lavoro  che prevede, per la maggioranza delle donne migranti, la possibilità di svolgere due sole attività: il lavoro domestico e la prostituzione. La sua valutazione è perfettamente consonante con quella espressa nel 1996 da Silvia Federici, le cui parole trascrivo:
 
"(...) la nuova divisione internazionale del lavoro veicola un progetto politico ferocemente antifemminista e, lungi dal costituire uno strumento di emancipazione delle donne, l'espansione delle relazioni capitaliste intensifica lo sfruttamento delle donne. In primo luogo essa ripropone l'immagine della donna come oggetto sessuale e come riproduttrice (...) La nuova divisione internazionale del lavoro significa che numerose donne del Terzo mondo devono lavorare come domestiche o come prostitute, nel loro Paese o all'estero, perché non hanno altra scelta (...) Il carattere antifemminista della nuova divisione internazionale del lavoro è così evidente che viene da chiedersi in che misura essa sia il prodotto della «mano invisibile» del mercato o invece di una pianificazione deliberata come risposta alle lotte che le donne hanno combattuto sia nel Terzo mondo che nelle metropoli [occidentali] contro la discriminazione, il lavoro non retribuito e il «sottosviluppo» in tutte le sue forme. Comunque sia, è evidente che in Europa e negli Stati Uniti le femministe devono organizzarsi contro le soluzioni coercitive che la nuova divisione internazionale del lavoro impone alle donne (...)".
 
Parole che qualsiasi femminista abolizionista italiana o straniera sarebbe disposta a sottoscrivere.
Potrei aggiungere ulteriori considerazioni, ma mi limito  a far notare, per concludere, come uno studio di Melissa Farley e delle sue collaboratrici riveli che l'89% delle donne che si prostituiscono vorrebbero  smettere, se si offrisse loro l'opportunità di farlo.
 
Sono queste le voci che nessuno ascolta, voci soffocate ed occultate. La stragrande maggioranza delle donne che praticano rapporti mercenari è ridotta al silenzio e non vede realizzate le proprie aspirazioni, così come inascoltate rimangono le testimonianze delle sopravvissute alla prostituzione.
Noi femministe abolizioniste vogliamo ascoltarle.
 
 

 
 


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