Prostituzione migrante e sopravvivenza dell'immaginario razzista e coloniale
La rappresentazione
nell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento delle donne africane nelle fonti iconografiche
e letterarie concorre in modo determinante a plasmare l'immaginario collettivo
italiano e a costruire un apparato culturale funzionale alla legittimazione
della conquista dei Paesi del Corno d'Africa e al consolidamento del consenso
popolare all'impresa coloniale.
Nella prima fase
dell'occupazione proliferano le immagini, spesso realizzate nei postriboli
specificamente destinati ai clienti italiani, di donne nude raffigurate in pose
sensuali ed invitanti, ad incarnare il mito della Venere nera. Spogliate e
private di ogni individualità, del nome come di qualsiasi altro carattere
distintivo, esse vengono rappresentate come corpi sessualmente disponibili alla
conquista, in grado di riattivare negli uomini italiani una primordiale ed
esuberante virilità fecondatrice.
Queste donne vengono metaforicamente
accostate alle nuove terre vergini e fertili da penetrare ed assoggettare: un
abbinamento volto a legittimare e a naturalizzare, attraverso il simbolismo dei
rapporti di genere, sia il dominio maschile razziale sulle donne africane, che il potere coloniale
esercitato su spazi femminilizzati ed erotizzati.
Tali rappresentazioni
culturali alimentano modelli di potere maschile fondati sulla forza e sulla
prevaricazione. E' opportuno ricordare, infatti, che il mito dell'illimitata disponibilità sessuale delle
donne africane non si configura soltanto come uno strumento finalizzato alla
costruzione del consenso popolare all'impresa coloniale italiana, ma anche come
un mezzo mirante all'imposizione di rigide gerarchie di genere e di razza e volto,
soprattutto, alla giustificazione
dell'aggressività e delle violenze commesse dalle truppe italiane. In nome
della supposta maggiore licenziosità delle donne africane verranno infatti
legittimati numerosi stupri e soprusi.
Agli albori dell'impresa
coloniale fascista in Etiopia, il mito della Venere nera influenzerà profondamente
le aspettative dei soldati italiani, attratti dall'idea di poter rivendicare
l'appropriazione del corpo delle donne africane come bottino di guerra.
Dopo la fondazione
dell'Impero nel 1936, la prospettiva muta. Nell'intento di riaffermare la spiccata superiorità degli italiani, il
regime fascista implementa una serie di dispositivi giuridici preordinati
all'instaurazione di un rigido sistema di segregazione razziale. Vengono vietati
i rapporti coniugali ed extraconiugali tra “razze” diverse, proibita la legittimazione
e l’adozione di figli nati dall’unione di “cittadini” con “sudditi”,
incentivato il trasferimento di donne italiane nelle colonie.
A
questo mutato orientamento corrisponde l'ideazione di un nuovo repertorio
iconico e testuale. Le immagini della Venere nera vengono soppiantate da
rappresentazioni di tipo etnografico che evidenziano caratteri fisici
interpretati come segni di inferiorità. Le donne africane vengono descritte
come esseri deformi, incivili e subiscono un processo di disumanizzazione attraverso
l'attribuzione dei tratti selvaggi del primitivismo e dell'animalità.
Nelle razze
negre
- scrive un anno prima della fondazione dell'Impero l'antropologo Lidio
Cipriani - l'inferiorità mentale della
donna confina con una vera e propria deficienza; anzi, almeno in Africa, certi
contegni femminili vengono a perdere molto dell'umano, per portarsi assai
prossimi a quelli degli animali". [Lidio Cipriani, Un assurdo etnico: l'Impero etiopico, 1935,
p.181]
Questi
retaggi culturali razzisti e coloniali sopravvivono nella mentalità di clienti
delle prostitute nigeriane, come attestano le seguenti testimonianze riportate
dal sociologo marxista Emilio Quadrelli nel saggio Corpi a perdere, incluso nel libro La città e le ombre, a cura dello stesso Quadrelli e di Alessandro Dal Lago:
Ogni tanto,
diciamo una volta alla settimana, vado con le negre. Sono stato anche con altre
prostitute, ma con le negre mi diverto di più, è come fare un safari. Mi sembra
di andare a caccia. Mi sembra di cacciare degli animali grandi e grossi. Poi
sono tutte uguali, vai nel mucchio, non hai il problema della scelta. Poi loro
per i soldi fanno tutto, con loro ti senti una potenza. Non mi interessa tanto
la cosa di per sé, è l'idea di possedere un animale, di poterlo usare come ti
pare che rende la cosa particolarmente eccitante. (Cliente di 23
anni).
Ogni tanto vado
con delle prostitute straniere. Sono stato sia con le slave che con le nere. Preferisco
le nere. Sono una novità e poi mi sembra che si possa fare con loro quello che
si vuole, sono un po' come delle bestie, sempre in calore, che non patiscono
niente. Poi ne hanno sempre voglia. [..]
Te l'ho detto, è un po' come avere a che fare con degli animali. Vado con loro
proprio per questo. [..] La scelta è abbastanza casuale, le negre hanno tutte
la stessa faccia e poi a me interessa il resto. Mi piacciono quelle un po' più
abbondanti. [..] Così le posso strizzare ben bene. Mi diverto a farle bruciare
la pelle. [..] (Cliente di 21 anni).
Sono stato con
delle prostitute straniere qualche volta. Ci vado perché loro sono così
naturalmente, si vede che gli piace, sì lo fanno anche per guadagnare, però
sono più portate specialmente le slave, sembra che non aspettino altro. Mi
sembra che per le straniere sia il lavoro preferito. Poi con le negre sei anche
curioso, sembrano un po' degli animali feroci, ci vai e ti sembra di rischiare,
l'idea del rischio fa aumentare il desiderio. A volte lo dico per scherzo, a
volte però lo credo sul serio, e magari le dico: "Ehi non mi
mangiare". [..] Quando vai con una nera che magari è settanta chili la
paura ti viene, allora subentra il gioco di chi è più forte, di chi comanda. (Cliente, 19
anni).
In
questi enunciati è condensato l'intero repertorio dei topoi razzisti di
entrambe le fasi della colonizzazione: il mito dell'incondizionata e
"naturale" disponibilità sessuale delle donne africane (loro sono così naturalmente, sono più
portate, ne hanno sempre voglia), la loro percezione come animali selvaggi
temporaneamente addomesticati, che legittima qualsiasi atto di appropriazione,
di dominio, di prevaricazione e di sadismo (sono
un po' come delle bestie sempre in calore che non patiscono niente, con loro si
può fare quello che si vuole, le posso strizzare ben bene, mi diverto a farle
bruciare la pelle, è l'idea di possedere un animale, di poterlo usare come ti
pare che rende la cosa particolarmente eccitante), la loro rappresentazione
come carne indifferente, priva di individualità (poi sono tutte uguali, vai nel mucchio, non hai il problema della scelta),
l'attribuzione ad esse di caratteri
primitivi e selvaggi (E' incredibile come
pensiate a noi come a degli esseri appena usciti dalla foresta, osserva la
prostituta nigeriana Jenny).
La
terza testimonianza che ho riportato introduce un altro stereotipo razzista: il
cannibalismo delle donne africane, che non è affatto estraneo all'immaginario
coloniale, come dimostra questa figura.
Si
tratta di un'incisione di Theodor Galle del 1589 che rappresenta Amerigo
Vespucci sulle spiagge del nuovo continente, dove si imbatte in una donna
seminuda distesa su un'amaca che lo invita ad accostarsi. La scena appare
dunque conforme al modello figurativo che ho precedentemente illustrato. Tuttavia, sullo sfondo si intravedono donne
che praticano il cannibalismo. L'incisione è, dunque, espressione di un atteggiamento
ambivalente, sospeso fra il desiderio erotico di conquista, l'attrazione
sessuale esercitata dalle donne indigene e il timore di essere divorati,
assimilati, privati della propria identità da questi esseri
"selvaggi". Il tema verrà ripreso dal colonialismo italiano,
soprattutto nel periodo dell'impero fascista, quando verranno vietate le
relazioni sessuali con le donne africane e verrà imposta la segregazione
razziale, per preservare la "purezza" del sangue dei coloni.
Mistificazioni
In
un recente articolo sul retaggio
dell'immaginario coloniale nella prostituzione, la figura del cliente viene
disinvoltamente rimossa dall'orizzonte discorsivo e
la sua mentalità razzista viene grottescamente proiettata sulle femministe abolizioniste, operando un vero e proprio ribaltamento della realtà, come se fossero queste ultime a perpetuare frame razzisti e a praticare violenze sulle donne prostituite.
Questa
mistificazione della realtà produce un duplice effetto. In primo luogo, distoglie lo sguardo di lettori e lettrici dai
veri eredi della mentalità coloniale e razzista: i clienti di cui ho riprodotto
le testimonianze, ne salvaguarda l'immagine, li protegge dalle critiche, li esenta
da ogni responsabilità. In secondo luogo, costruisce un nemico, un capro
espiatorio contro cui convogliare l'odio di lettori e lettrici: le femministe
abolizioniste, oggetto in Italia, da parte di alcune persone, di una spietata demonizzazione che fa ricorso anche
alla mistificazione.
Un'altra
forma di alterazione della verità è ravvisabile nell'accusa completamente
infondata rivolta alle abolizioniste di confondere prostituzione e tratta e di ridurre
quest'ultima a quella delle donne nigeriane. L'insinuazione è funzionale
all'inserimento artificioso delle abolizioniste nella categoria dei sostenitori
e divulgatori dei miti coloniali e razzisti.
A
destare stupore e perplessità è il fatto che questa accusa venga ossessivamente
reiterata di anno in anno, malgrado le smentite e le confutazioni,
configurandosi come una vera e propria leggenda metropolitana.
Ho già chiarito altrove, più di un anno fa,
come la tratta non comporti necessariamente
né il trasferimento al di fuori dei confini nazionali, né lo spostamento da e
verso Paesi che non aderiscono agli accordi di Schengen e come la maggioranza
delle vittime e, in genere, delle
prostitute straniere nell’Europa occidentale sia costituita da donne provenienti dall'Europa centrale ed orientale e, dunque, da bianche.
Questa osservazione mi consente di confutare l'insinuazione calunniosa che il colore nero della pelle rappresenti per le femministe
abolizioniste il dato centrale attorno al quale costruire il mito razzista
della vittima di tratta. E' questa un'affermazione falsa e diffamatoria, come
lo è l' asserzione che alle abolizioniste non importerebbe nulla del traffico
di esseri umani non finalizzato allo sfruttamento sessuale. E' ovvio che a noi,
come a qualsiasi altra persona , stia
molto a cuore la lotta contro ogni forma di tratta e contro il caporalato! Peraltro, queste accuse oltraggiose sono state mosse da chi ha tradotto testi di una studiosa che
vorrebbe abolire il termine tratta (Laura Agustin)!
Mi pare, poi, francamente assurdo attribuire alle abolizioniste l'idea
che la prostituzione rappresenti una forma di devianza individuale (sic!!!!).
Ma quando mai? In quale articolo o libro
sarebbero riportate queste asserzioni? Esiste, al contrario, una nutrita letteratura
di ispirazione abolizionista che evidenzia le strette connessioni esistenti tra
capitalismo, razzismo, disuguaglianze economiche, sociali e di genere e diffusione della prostituzione! Penso, per citare soltanto qualche nome, alle analisi del
sociologo marxista Richard Poulin, delle femministe Jacqueline Pénit-Soria e Claudine Blasco
della commissione Genere di Attac France, ai testi di una femminista
materialista come Jules Falquet. Quest'ultima critica aspramente la nuova divisione
internazionale del lavoro che prevede, per la maggioranza delle donne migranti, la possibilità
di svolgere due sole attività: il lavoro domestico e la prostituzione. La sua valutazione
è perfettamente consonante con quella espressa nel 1996 da Silvia Federici, le cui
parole trascrivo:
"(...) la nuova divisione internazionale
del lavoro veicola un progetto politico ferocemente antifemminista e, lungi dal
costituire uno strumento di emancipazione delle donne, l'espansione delle
relazioni capitaliste intensifica lo sfruttamento delle donne. In primo luogo
essa ripropone l'immagine della donna come oggetto sessuale e come
riproduttrice (...) La nuova divisione internazionale del lavoro significa che
numerose donne del Terzo mondo devono lavorare come domestiche o come
prostitute, nel loro Paese o all'estero, perché non hanno altra scelta (...) Il
carattere antifemminista della nuova divisione internazionale del lavoro è così
evidente che viene da chiedersi in che misura essa sia il prodotto della «mano
invisibile» del mercato o invece di una pianificazione deliberata come risposta
alle lotte che le donne hanno combattuto sia nel Terzo mondo che nelle
metropoli [occidentali] contro la discriminazione, il lavoro non retribuito e
il «sottosviluppo» in tutte le sue forme. Comunque sia, è evidente che in
Europa e negli Stati Uniti le femministe devono organizzarsi contro le
soluzioni coercitive che la nuova divisione internazionale del lavoro impone
alle donne (...)".
Parole che qualsiasi femminista abolizionista italiana
o straniera sarebbe disposta a sottoscrivere.
Sono queste le voci che nessuno ascolta, voci
soffocate ed occultate. La stragrande maggioranza delle donne che praticano
rapporti mercenari è ridotta al silenzio e non vede realizzate le proprie
aspirazioni, così come inascoltate rimangono le testimonianze delle sopravvissute
alla prostituzione.
Noi femministe abolizioniste vogliamo ascoltarle.